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452 | CAPITOLO DECIMOSETTIMO |
Ella ha veduto nelle mie lettere alla Vayla il mio presente stato d’animo rispetto ad esse. Se mi si sono sfasciate nella mente, è stato con grande mio strazio. Solamente ieri, durante tutto il paradiso di ieri, non ci ho pensato. E non ci avrei pensato oggi e non ci penserei domani e chi sa per quanto tempo mi basterebbe di vivere e di amare in questa solitudine poetica, di avvolgere nello stesso tacito perdono di disprezzo tutti i piccoli uomini e le piccole donne del grande rumoroso mondo che mi hanno dato fastidio, se non fosse imminente un avvenimento cui non posso a meno di accennare senza una specie di commozione terribile e sacra. Un Morto è uscito dalla tomba e si avvicina a me, cerca me per domandarmi conto della mia fede. È il mio maestro, l’Uomo che ho più amato al mondo, l’Uomo che ha creduto, adorato, obbedito, perdonato a tutti e disprezzato nessuno. Egli è uscito dalla sua tomba di Roma. Viene qua. Arriverà posdomani sera. Me lo annuncia un telegramma pervenutomi stamattina. Io dovrò andare a incontrarlo. Leila cara, noi cercheremo insieme una fede, ma quello che provo pensando un tale incontro, nè la parola nè il silenzio valgono a dire, perchè non lo so definire a me stesso.
Non mi è possibile incontrarla com’Ella dice. Alle due e mezzo debbo trovarmi a Cima per parlare col sindaco. Ella parta a quell’ora e si faccia accompagnare al Santuario della Caravina. Attraversato il villaggio di Cressogno, congedi la Sua guida. Non potrà sbagliare più. Il Santuario è una chiesa isolata. Se non mi avrà incontrato prima, mi aspetti lì. Andremo poi insieme a Cima dov’Ella potrà prendere il battello per ritornare a San Mamette. Io risalirò a Dasio. Leila mia!»
M.
Un fischio. Il battello arrivava da Oria. Lelia aveva