Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/460

448 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

saprò dirle. Ella mi disprezza, forse, nel fondo del Suo cuore, perchè sono venuta da Lei come una ragazza folle. Mi disprezzerà più ancora sapendo che non sono venuta per chieder niente, poichè non mi sento il diritto di chieder niente, che quanto Ella farà per me, per il mio onore, per il mio amore, per la mia vita, sarà generoso dono. Ma non creda che il mio sia stato un fuoco improvviso, uno slancio del momento. La ho amata prima ancora di conoscerla, prima ch’Ella venisse alla Montanina. Ho ascoltato palpitando, la sera del suo arrivo, il rumore del treno che La portava. E mi sono difesa contro l’amore. Perchè mi sono difesa? Per orgoglio. Ma io sto scusandomi, adesso, e non voglio scusarmi. Quanto più amavo, tanto più sono stata cattiva, superba, colpevole verso di Lei. Questa è la verità. Tutto il male ch’Ella ha pensato di me, lo meritavo. Sono venuta per dirle questo e che l’amo e che sono nelle Sue mani. Non Le ho poi detto altro che il mio amore. Ah non ho avuto bisogno di dirlo!

Credevo che mi avrebbe respinta, come indegna. Avrei detto: «è giusto». Non mi sarei uccisa perchè ho dato parola di non uccidermi. Non avrei preso il velo perchè non ho più fede. Avrei cercato di vivere in qualche modo vicino a Lei, vedendola qualche volta senza lasciarmi vedere mai. Ma Ella è stato buono e grande. Ella ha avuto pietà di una persona tanto cattiva e superba. Le Sue labbra mi hanno rimesso il mio peccato. Ella ha detto «per sempre», Ella ha detto «sposa mia.» Sarà una eterna ebbrezza per me di ricordarlo. Ma io sento terrore della Sua pietà. Io tremo di renderLa infelice, io tremo di non saper mantenere quello che prometto, di non saper diventare Leila. Tremo del cattivo sangue ch’è in me. Se non avessi del cattivo sangue, non avrei saputo ingannare mio padre, la mia affezionata cameriera e quella povera donna che mi ac-