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444 CAPITOLO DECIMOSESTO

«Cosa ci dovrei fare, cara?»

Ella non ne aveva un’idea. Le pareva che non fosse uomo da rassegnarsi a non fare altro che visite a contadini, ecco.

«Non ho più fede» diss’egli. Intendeva dire che non aveva più la fede in se stesso. Lelia, ricordando le sue lettere, interpretò quelle parole diversamente.

«Neppur io, sa» diss’ella. «E sono tanto contenta ch’Ella non abbia più la fede dei preti di Velo!»

«Oh cara» interruppe Massimo, «e il povero signor Marcello e donna Fedele e mia madre, che fede avevano? Io la perdo, l’ho perduta, ma vorrei che Leila non la perdesse. Però non parlavo di fede religiosa, parlavo della fede in me stesso.»

«Ma io ne ho tanta, in Lei!»

Massimo sorrise. E questo «Lei» non lo voleva proprio abbandonare? Ella confessò che le piaceva tanto dire «Lei» e fare... Si guardò in giro, non vide anima viva, gli porse le labbra, mormorò:

«Così.»


Era tempo di mettersi definitivamente in cammino per San Mamette. Discesero passo passo, parlando poco, serbando un contegno prudente. Giunti alla chiesa parrocchiale che si cova, sotto uno scoglio, i tetti del paesello, entrarono nel sagrato. Massimo aveva deciso di congedarsi lì per risalire poi fino a Muzzaglio, rivedere il suo convalescente. Appoggiati al parapetto del sagrato, vi presero le ultime intelligenze per l’indomani. Massimo non sarebbe venuto a San Mamette nè l’avrebbe incontrata altrove. Le avrebbe invece fatto pervenire una lettera verso sera, dopo parlato coi sindaci.

«Lunga, La prego!» diss’ella. Promise che ne avrebbe scritto una essa pure, per consegnarla al messaggero