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NOTTE E FIAMME 443

uno specchio in quest’acqua per rimettermi in ordine i capelli.»

Discesero presso la corrente, cercarono un posto dove si allargasse placida, trovarono uno specchio languido. Avevano già veduto dal ponte specchiarsi lì la cascata. Lelia pregò Massimo, sorridendo, di allontanarsi. Egli resistette un poco, quindi obbedì, fece qualche passo sulla strada di Puria. Non andò molto che un argentino riso di lei lo richiamò. Seduta sulla riva, ella si era interamente sciolti i magnifici capelli biondi dove il sole e l’ombra scherzavano insieme. Aveva perduto il picciol nastro che li legava, non sapeva come levarsi d’impaccio, rideva della propria sbadataggine e del proprio imbarazzo. Teneva in grembo due pettini di tartaruga e cercava attorcersi con ambo le mani sulla nuca un’onda pesante della capellatura. Pareva più bella così, pareva la naiade della cascata. Perchè Massimo la guardava estasiato, rise, lo pregò di guardare altrove. Non le era possibile, sentendosi guardata da lui, venire a capo di niente. Ma neppur egli poteva più toglier lo sguardo dai due fiumi biondi che velavano la fronte sopra gli occhi lucenti di riso e di amore, che le scendevano per le spalle al seno. Sì, pareva veramente la naiade della cascata, la regina bionda del picciol regno di rupi, di acque, di selve.

«Resti così» diss’egli, dimenticando il tu, nella sua ammirazione.

«Sì» rispose la fanciulla, «e poi, cosa diranno di Lei se La vedono con una scapigliata di questo genere?»

Prese il partito di farsi due trecce e lasciarle cadere sul dorso. Fatte le trecce, balzò leggera in piedi.

«Va bene?» diss’ella volgendo a Massimo gli occhi ridenti. Egli rispose:

«È una poesia.»

«Questa Valsolda sì, è poesia» mormorò Lelia.

«Lei non farà mica solamente il medico, qui?»