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438 CAPITOLO DECIMOSESTO

che le cavalca, gittato dal basso all’alto dove i macigni le stringono irritate. Rude com’è, avvinghiato da rovi e sterpi dell’una e dell’altra sponda, il ponticello pare opera della natura piuttosto che dell’uomo. Prima di giungervi il viottolo rade un cavo di roccia sufficiente a capire due o tre persone che vi riparino dalla pioggia. Il cavo è volto a settentrione, guarda la costa di Dasio, il vallone del Passo Stretto, il sovreminente anfiteatro di rocce Massimo e Lelia vi si adagiarono a riposare.

«La punta di dolomia?» diss’ella. «Qual è?»

Massimo la guardò stupefatto. Che sapeva lei della punta di dolomia? Ella abbassò il capo e tacque. Egli le prese una mano fra le proprie, rinnovò la domanda, più stringente, più ansiosa. Che ne sapeva lei?

«Vorrei rispondere colla musica di Schumann» diss’ella, piano, senz’alzare il capo «e mettervi tutta l’anima mia.»

Massimo comprese che donna Fedele aveva parlato e strinse in silenzio la docile mano prigioniera. Palpitavano entrambi ascoltandosi nella memoria l’incalzante ansito e lo slancio delle note divine. Il rombo eguale del torrente era un accompagnamento sconsolato, era il tristo ululo di un idiota che sentisse torbidamente, invidiando, l’amore e la musica.

«Or sappi...» mormorò Lelia, alzando il viso rigato di lagrime d’amore. Massimo non conosceva quei versi.

«Or sappi?» diss’egli. «Niente» rispose Lelia continuando involontariamente il tudei versi: «mostrami la punta di dolomia.»

Egli le mostrò, sulla cresta della montagna in faccia, il piccolo dente inclinato a mordere il cielo poco sotto la sommità, verso levante.

«Lo pensavo» diss’ella «ma l’effetto è diverso quando la rupe si vede spiccar nel cielo dentro un piccolo campo, come dal salone della Montanina.»