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NOTTE E FIAMME | 437 |
che Lelia scrivesse presto la nuova lettera, che non dimenticasse di aggiungervi la data, e anche una parola d’invito a rispondere.
Mentr’essa, risalita in camera, scriveva Massimo pigliava qualche cibo, ecco di ritorno i milanesi, scalmanati, stanchi, bagnati, carichi di fiori della montagna, di ciclami, di aconiti, di felci, di funghi, di fragole, di formaggi di capra e di bottiglie vuote. Non c’era più a sperare silenzio nè quiete, nè libertà di colloquii nel giardino. Quando Lelia discese colla lettera, Massimo le propose di partire. Ella, che mostrava già fastidio dei disturbatori, accettò subito. Prima di mettersi il cappello chiese spensieratamente:
«Ritorniamo, vero?»
Massimo la guardò. Ella lo vide accendersi nel viso e arrossì pure. No, non aveva pensato di restare a Dasio. Credeva che Massimo le avesse proposto un breve passeggio per sottrarsi alla compagnia turbolenta e scendere più tardi. Massimo guardò l’orologio. Erano quasi le tre.
«Prendiamo quattr’ore» diss’egli «per scendere.»
Lelia, contenta, lo ringraziò cogli occhi.
Partirono nel sole e nel vento. Si era levata una «breva» gagliarda che aveva cambiato faccia al cielo e alla terra. Il sereno rompeva da ogni parte. I pascoli dei Rancò, i castagneti di Drano, le ignude creste taglienti risplendevano, il fogliame umido batteva e luccicava intorno ai due che, lasciata la via di Puria là dove la ragazza dell’albergo era discesa a parlare con Lelia, si erano messi per lo stretto sentiero affogato nel verde, che, di ripiano in ripiano, per sassi e acquitrini, per campicelli e ripide coste erbose, salta e si perde nel morbido grembo del vallone, dove cantano e girano verso mezzodì le acque discese dal Passo Stretto. Ricompare girando con esse, sale al ponticello di sasso