Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
436 | CAPITOLO DECIMOSESTO |
Ella non scendeva e Massimo, impaziente, si pose a camminare su e giù per il giardino facendo ancora sorridere la ragazza che raccoglieva daccapo le sue biancherie. Lelia comparve a una finestra, lo vide, disparve subito. Massimo non potè trattenersi dall’andare a incontrarla sulle scale. Sapeva che in quell’ala dell’albergo non c’era anima viva, certa famiglia milanese arrivata da un giorno essendo fuori, sulla montagna, dall’alba.
«Sono felice!» diss’egli.
Ella gli cadde sul petto, gl’intrecciò le mani dietro il collo, mormorò:
«Andava bene?»
Uscirono e si avviarono al riparo dell’abete, egli parlando sottovoce ma impetuoso, ella tacendo, bevendo le parole ardenti, beata. Disse finalmente che non avrebbe voluto essergli di peso ma ch’era contenta di accettare la volontà di lui, che avrebbe scritto un’altra lettera come desiderava egli, dichiarando di rinunciare del tutto a qualunque assegno. Udito poi dell’incarico dato da Massimo a donna Fedele, lo avvertì della partenza di lei per Torino, imminente. Solamente allora Massimo apprese parte della verità dolorosa. Che un ritardo, anche brevissimo, dell’operazione potesse riuscire fatale all’inferma, neppure Lelia sapeva.
Sorpreso, afflitto, egli si dolse di non aver appreso la cosa in tempo per offrirsi di accompagnare donna Fedele a Torino. Lelia lo guardò. Temette di esprimere il suo pensiero con parole che avrebbero offeso il pudore dell’egoismo, ma gli occhi dissero chiaro: non pensi che non saremmo qui insieme? Egli capì, sorrise, rinnegò, pure cogli occhi, il rincrescimento generoso. Consci di un comune moto dell’animo che li abbassava, non osarono riprendere quel discorso. Ora occorreva