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434 | CAPITOLO DECIMOSESTO |
giorno sono alcuni alberi. Quel giorno erano state tirate corde un po’ dappertutto, per il bucato dell’albergo. Fortunatamente la pioggia aveva posto il bucato in fuga e si era accontentata di questa vittoria; per cui Lelia potè sedere all’aperto, sul parapetto, senza patire la compagnia di calze, fazzoletti e camicie.
Veduto Massimo, si alzò, tenendo una lettera. Gli disse che aveva fatto colazione in camera e che poi aveva scritto. Egli porse la mano, pensando che la lettera fosse per lui, dicesse ciò che Lelia aveva confessato di non sapere spiegare a voce, il mutamento avvenuto nell’animo di lei, il perchè e il come della sua risoluzione. Ma Lelia, prima di dargli la lettera, gliene fece leggere l’indirizzo: «Signor Gerolamo da Camin - Velo d’Astico (Vicenza).» Massimo ritirò la mano.
«No no» diss’ella. «Deve leggere. Solo La prego di non leggere in presenza mia. Lei non ha fatto colazione? Legga e faccia colazione. Io vado a riposare un poco.»
Massimo accompagnò la fanciulla all’entrata dell’ala nuova. Ella parve leggergli nel pensiero, notare in lui qualche ritegno. Al momento di lasciarlo per salire in camera lo guardò. I begli occhi desiderosi, un po’ attoniti, parvero ingrandire, le labbra sussurrarono:
«Mi ama?»
«Ora e sempre» diss’egli.
Gli occhi grandi durarono a interrogarlo, parvero contenti, si velarono di una blanda luce di dolcezza. La ragazza che stava sciorinando daccapo calze, fazzoletti e camicie sulle corde tese, quando vide la faccia di Massimo che ritornava solo verso il salotto dell’albergo, sorrise.
Egli andò a chiudersi in camera e lesse: