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430 | CAPITOLO DECIMOSESTO |
perto, nebbie pascevano sulle creste cineree. Il verde uniforme, non rotto d’ombre, i toni grigi della scena parevano un riguardoso tacere della natura intorno alle due anime, tanto piene l’una dell’altra. Lelia, seduta sull’erba, guardò un momento il dolce silenzio di quella velata bellezza di cose.
«Ah!» esclamò. «Vivere qui!» E chiuse gli occhi, rapita. Massimo tacque. Sarebbe stato un sogno; ma sapeva bene, Lelia, che significasse vivere a Dasio? Gli parve savio tacere. Il suo silenzio sorprese la fanciulla. «No?» diss’ella. Egli sorrise. «Sì» rispose «ma converrebbe provare, prima, viverci qualche giorno.» Ella lo guardò. Lo sguardo diceva, desiderando: posso io vivere qualche giorno qui presso a te, ora? Conscio di essere stato imprudente egli approfittò di una minuta gocciolina cadutagli sulla mano per invitare la fanciulla a rimettersi in via.
Il sussurro della pioggerellina fine accompagnò i loro passi. La visione di sogno evocata da Lelia, una convivenza a Dasio, li aveva richiamati alla realtà. Tacevano, ignorando penosamente l’uno il pensiero dell’altro, non già riguardo a un avvenire lontano, ma proprio al più vicino. Ella era venuta di slancio, per amore. La liberazione dal peso mortale dell’atmosfera infetta, ora gravante sulla Montanina era stata pure una gioia. All’indomani non aveva pensato. Sì, Massimo aveva detto «per sempre», aveva detto «sposa mia»; ma intanto? Non si sarebbe preoccupata dell’indomani se non avesse capito che se ne preoccupava egli. Avrebbe preso alloggio a Dasio, senz’altro. Non le importavano i discorsi della gente, le importava non fare, non dire cosa che a lui paresse sbagliata, non commettere una sola mancanza di tatto. Lo guardava, ne spiava il pensiero ansiosamente. Egli taceva, lottava coll’ebbrezza della felicità per imporsi di esser uomo e non fanciullo, di governare