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428 | CAPITOLO DECIMOSESTO |
Il giovine offerse di scendere al torrente per attingere un po’ d’acqua nella sua tazza di metallo e faceva già l’atto di alzarsi, quando essa gli afferrò in silenzio ambedue le mani, lo trattenne quasi violenta.
Presto si venne ricomponendo nella persona e nel viso. Si ravviò i capelli e, presa una mano di Massimo, gli mormorò guardandone, studiandone il palmo:
«Come ha fatto a perdonarmi così presto?»
«Oh, io!» esclamò egli. La domanda concepita e frenata fin da quando ell’aveva confessato di essere venuta sola, gli proruppe dal labbro: «ma tu...?».
Ella intese senz’altro. Gli disse che non era in grado di parlare, che, se voleva, avrebbe scritto. Soggiunse, richiesta, ch’era arrivata la sera precedente e che aveva preso alloggio a San Mamette. Una sola cosa Massimo ardì domandarle ancora: se suo padre sapesse. Lelia rispose che solamente donna Fedele sapeva e che aveva saputo dopo la sua partenza. Seguì un silenzio turbato, nel cuore di lui, di varie incertezze, nel cuore di lei, della pena di sentirle e di non sapergliele togliere lì per lì. Massimo propose di ritornare a Dasio, dov’ella potrebbe riposare, ristorarsi. Ella si mosse come se la parte sua non fosse di acconsentire ma solamente di obbedire, come s’ella fosse oramai cosa di lui.
S’incamminarono lentamente, ella appoggiata al braccio di lui, in silenzio. Egli cominciava a preoccuparsi dei commenti che avrebbero fatto all’albergo. Era scritto oramai ch’egli desse a Lelia il proprio nome, il proprio onore, la vita; ma quand’anche non fosse stato così, avrebbe fatto il possibile perchè una sola parola maligna non sfiorasse la fanciulla che per un impulso di passione e di rimorso era venuta a gittarsi nelle sue braccia. Gli parve a un tratto vedere negli occhi di lei una pena di quel suo silenzio pensoso. Erano nel fitto del bosco. Sciolse il braccio da quello di lei, ne cinse