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426 | CAPITOLO DECIMOSESTO |
si trovarono a paro. Egli le cinse con un braccio la vita. Ella lo guardò, lo guardò, piegò il viso verso di lui che piegò il suo. Le labbra mute di lei si porsero. Il bacio fu lieve perchè l’uno e l’altra sentivano confusamente quasi una riverenza di qualchecosa di augusto che si compiesse in quel momento, di qualchecosa di eterno che fosse incominciato col bacio dell’amore. Lelia si levò il cappello, ritornò al bacio, piegò il viso sul petto dell’amato.
Allora egli, non più smarrito, tutto rinnegando quel che aveva pensato amaramente di lei, godendo di abbandonarsi senza misura, le mormorò sul tepido profumo dei capelli biondi:
«Per sempre; vero?»
Ella rispose con una pressione impetuosa della fronte. Voci di donne nel bosco. Lelia alzò il viso, riprese la via davanti a Massimo, voltandosi ogni momento a guardarlo, come prima. Nel ripassare accanto ai ciclamini che poco dianzi aveva contemplati a lungo, Massimo ne colse uno per lei e sorrise. Ella baciò la mano che offriva il fiore e disse quindi le sue prime parole:
«Perchè ride?»
La nota voce di contralto gli risuonò nell’anima. Più che mai, nell’udirla, fu certo di non sognare, più che mai la realtà gli parve sogno. Solo conosceva di quella voce la freddezza, l’ironia e la collera. Le due parole, per sè indifferenti, erano la nota, toccata appena, della quarta corda, la nota dolce e grave di una corda incognita che trasformava il suono dello strumento: della corda dell’amore. Per qualche momento Massimo, vinto dalla dolcezza, non seppe rispondere, dire come il rombo del torrente gli avesse richiamato alla memoria la Montanina, come si fosse lungamente affisato nei ciclamini per forzarsi di non pensare l’immagine di lei che gli bruciava il cuore. Le parole che dicevano il suo passato