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NOTTE E FIAMME 423

zato, ascoltò con pazienza grande le chiacchiere infinite della vecchietta che lo assisteva e riprese la via di Dasio. Sostò ai pascoli di San Rocco, dove l’ultimo verde muore alle pareti di roccia. Vi pasceva un armento, il continuo tintinnìo di campani oscillava sul rombo eguale del fiume profondo. Sedette sull’erba ascoltando il rombo simile alla voce del Posina ch’empiva, a finestre aperte, la sua camera della Montanina. Il tempo era grigio, malinconico il rombo, malinconico il tintinnìo dei campani delle vacche pascenti. Il rombo gli faceva male, un dolce male cui si abbandonò, vôto di pensiero. Qualche ricordo preciso di Lelia gli passò per la mente quando riprese la via, dolendogli ancora il petto di quel dolce male. Si fermò a guardar fiso, nel bosco, un ciuffo di ciclamini fioriti presso il sentiero, li guardò fino a che quelle immagini gli rientrarono sotto la soglia della memoria cosciente. Uscì, camminando adagio, dal bosco di castagni e di noci nel Pian di Nava.

Vide subito, a duecento passi, una signora vestita di chiaro, seduta sull’orlo alto del prato, dov’esso gira a sinistra e scende verso la Terra Morta. Non se ne curò. Quasi ogni giorno salivano a Dasio villeggianti di Loggio e di San Mamette. Non se ne curò e non la guardò. La signora era seduta fuori del sentiero, circa venti passi a destra. Quando Massimo, camminando lentamente, le fu a paro, ella si alzò in piedi. Egli la guardò allora per l’impressione di quel movimento come avrebbe guardato una fronda improvvisamente agitata dal vento. Non la riconobbe, voltò la testa da lei al proprio cammino e già passava oltre. Ella fece l’atto di movere avanti, si porse e si trattenne. Allora egli si trattenne pure e la guardò nuovamente. Era tanto pallida, tanto stravolta che ancora non l’avrebbe riconosciuta se gli occhi di lei non lo avessero guardato con una fissità vitrea. Dubitò, trasalì, impietrò. Ella piegò il viso, cercò