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416 CAPITOLO DECIMOSESTO

modo. L’abbandono del corpo al riposo le predispose, per un arcano consenso delle due nature, l’abbandono dell’animo al Destino. Una ad una le tornarono nella memoria, giacendo ella così, le parole delle lettere di Massimo che dicevano di lei, che, tutte, le dolci e le acerbe, avevano un’anima stessa di amore. Adesso ch’ella aveva rinunciato a scrivergli, che si era data nelle mani di quella Volontà ignota dalla quale dipendono gli eventi, la sua mente si chiuse e posò nel pensiero: mi ama.

Lenta, eterna notte. Folgorava, ogni tanto, nella camera il bagliore elettrico. Lelia ne aveva piacere. Le pareva che l’Occhio luminoso vegliasse anche per lei, sopra di lei. Poco prima dell’alba si assopì e quasi subito si riscosse, atterrita di aver dormito contro il suo proposito. Più tardi scese dal letto, intirizzita, andò a chiudere i vetri. Non vide più l’Occhio lucente nè le fiamme elettriche sul ciglio della montagna. Vide sotto la finestra un pergolato, un cortile umido, campicelli e più oltre, a pochi passi, il lago addormentato a specchio delle nuvole uguali, pesanti. Ritornò a giacere. Veniva il giorno, veniva il Destino.


II.



Feceto eletta alle sei. Nel lavarsi allagò la camera e tuttavia suonò per farsi portare ancora dell’acqua. La cameriera notò subito che la signorina non era entrata sotto le coltri, guardò il letto, guardò lei, sorpresa. Lelia arrossì, non parlò della sua notte. Si scusò per l’allagamento, prima. Poi domandò, con ipocrisia presso che inconscia, se Puria fosse lontano. Sapeva, per la lettera di Massimo, che da Puria a Dasio c’erano venti minuti. La ragazza rispose che si poteva andare a Puria