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414 CAPITOLO DECIMOSESTO

la stessa rigidità delle pareti. Era il primo gelo delle realtà dure ch’ella non aveva pensate meditando la fuga, che solo in viaggio aveva confusamente presentite. L’idea di passar la notte fra quelle mura le mise in testa un subbuglio d’immaginazioni paurose, in cuore uno sgomento invincibile, malgrado la vergogna che ne aveva. Non seppe ella stessa come le fosse riuscito di articolare quelle due parole: una stanza. Per sua fortuna l’albergatore, un omino per bene, ne notò subito la distinzione e l’imbarazzo, le si mostrò molto gentile. Disse che la cameriera le avrebbe fatto vedere le stanze di cui poteva disporre. Realmente poteva disporre di quasi tutto l’albergo. Lelia salì le scale un po’ rinfrancata, seguì la cameriera in una bella stanza d’angolo al secondo piano e dichiarò subito che non voleva vederne altre, che prendeva quella. Chiese alla ragazza dove dormisse. Sperava di averla vicina e si trattenne dal dirlo per la vergogna di mostrarsi tanto paurosa. La ragazza non le dormiva vicina. Non immaginò che la signorina forestiera avesse paura, le domandò se desiderasse qualche cosa da lei. No no, niente. E non pranzava? Lelia sentiva di non poter prender cibo ma si ordinò una piccola cena in camera, perchè la ragazza ritornasse, per poterle domandare qualche cosa di Dasio. La ragazza le preparò un tavolino per mensa, portò la cena. Lelia non osò parlare di Dasio. Rimasta sola per la notte, si chiamò sciocca e vile, s’irrigidì contro le sue viltà, pensò, per farsi coraggio, suo padre, i preti di Velo, l’intingolo nauseabondo di cui non sentiva più l’odore. Ma, in pari tempo, l’assalì per la prima volta l’immagine di donna Fedele, ne vide i grandi occhi bruni sotto la fronte alta e il sottile arco bianco di capelli, ne udì la voce d’oro: «ah ragazza, cos’hai fatto?». Ma ciò ch’era fatto era fatto.

E non sarebbe da mandargli una parola, prima di