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412 | CAPITOLO DECIMOSESTO |
le mancò quasi il respiro. Si fermò un momento sulla passerella sotto la pioggia fitta, senz’aprir l’ombrello.
Sopra coperta c’era pochissima gente. Lelia sedette all’estrema poppa. Pareva guardar l’acqua e non aveva sguardo negli occhi vitrei. Il batter cupo, misurato, degli stantuffi le riempiva la mente vuota di pensiero, insieme al batter cupo, misurato, del cuore. Il bigliettario dovette chiamarla due volte perchè gli dicesse dove andava. Desiderò rispondere «Lugano» e invece rispose «San Mamette» come forzatavi dal senso di un destino. Domandò quanto tempo ci volesse per arrivare a San Mamette. Udito che ci voleva più di un’ora e che prima si toccava Lugano, respirò alquanto, il suo sguardo errò un poco sulle acque, sulla maglia mobile dei circoletti infiniti che la pioggia vi segnava senza posa, sul piede scuro delle montagne. Quando il vapore, presso Melide, rallentò, si credette arrivare a Lugano. Udito che Lugano era la stazione prossima, ricadde nell’atonia cerebrale di prima. Non si accorse di passare sotto il ponte. Poco dopo, il bigliettario le si avvicinò per mostrarle amabilmente dov’era San Mamette: laggiù verso levante, dove il lago sfumava, come un mare, nella nebbia. Là era il mistero.
Presto le sfilarono davanti gli alberghi signorili di Lugano, le case umide, i giardini scuri ascendenti al nebbione. Una, due, tre fermate. Passeggeri escono, passeggeri entrano. Si grida: Gandria, Santa Margherita, Oria, San Mamette, Osteno, Cima, Porlezza! Il battello è spinto via lentamente, a forza di braccia, dall’approdo, i colpi degli stantuffi ricominciano. Si parte, il battello gira lentamente, mette la prora sul nebbione dell’alto lago; le case umide, gli alberghi, i giardini di Lugano si velano, a poppa, di pioggia e di distanza.
Allora nell’anima di Lelia spirò improvvisamente un vento nuovo. Tutte le ragioni del donarsi vi risorsero