gnore, che andavano a Bergamo, discesero a Rovato. Poichè nessun altro era salito mai, il viaggiatore di commercio restò solo con Lelia. Ella neppure se ne accorse. Da Verona in poi il suo stato d’animo era venuto più e più mutando. La fiamma ardente dei primi momenti di libertà, quando immaginava già le braccia e le labbra dell’amato, aveva preso, dopo Verona, a discendere, a lasciar trasparire in fondo al cuore punti scuri di dubbii e d’inquietudini, sempre più grandi, sempre più neri. Durante la prima ora della fuga Lelia vedeva chiare davanti a sè, nel paese lontano, le maggiori linee dell’evento voluto, un incontro di due amori, una gioia, un’ebbrezza, e poi nebbia, quello che vorrà il destino. Più sentiva di avvicinarsi all’evento, meno ne discerneva le maggiori linee, più le apparivano tanti particolari imbarazzanti cui non aveva pensato, tante piccole spine della realtà. Le lampeggiarono dubbii paurosi: il dubbio che al momento le venisse meno il coraggio di mostrarsi, il dubbio di avere preso una risoluzione troppo dura per il proprio orgoglio, il dubbio di parergli vile o sfrontata. Intanto il treno correva verso l’evento, e nella sua mente, nei suoi sensi, il correr del treno diventava violenza di forze cieche obbedienti a lei che le avesse poste in moto e non potesse frenarle più. Non si accorse che il viaggiatore di commercio le si era avvicinato per tirare le tendine a riparo del sole che le batteva sulla persona, non si accorse che si era seduto a fronte di lei, che si chinava a considerarle l’anello. Rientrò in sè quand’egli, incoraggiato dall’apparente indifferenza di lei, le prese dolcemente la mano fra le proprie. Lelia la ritirò con una esclamazione di sdegno, e il giovine si scusò, protestò di non voler essere indiscreto come la signora che era discesa a Verona, disse che desiderava soltanto conoscere il suo bel nome. Lelia non rispose, si alzò, andò a mettersi all’altro an-