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PRELUDIO MISTICO 29

«Sto bene, sai, Leila» diss’egli. «Sto tanto bene.»

Negli ultimi due mesi della sua vita, dopo un piccolo litigio con Lelia, il povero Andrea l’aveva chiamata quasi sempre «Leila». Per Marcello, che lo aveva saputo dalla sua povera moglie, dire «Leila» era quasi un dire «Andrea», quasi un pronunciare un nome ch’egli non sapeva udire senza soffrirne come di una profanazione, il nome che si diceva nel cuore sempre, colle labbra soltanto nel segreto della sua camera, quando nessuno poteva, non che udirlo, vederlo.

«Leila, sì, Leila» soggiunse, sorridendo dello smarrimento di lei che si domandava cos’avvenisse in quella mente di cui si veniva scoprendo il più chiuso profondo.

«Sì, papà» diss’ella. «Ma ora non si stanchi più, si ritiri, riposi.»

Non sapeva trovare parole adatte a persuaderlo, temeva di parere indifferente alla sua tenerezza, temeva di parere sgomentata dalle sue parole nuove. E quella sera sentiva uno strano bisogno di stringersi spiritualmente al padre di Andrea come a un difensore, a un rifugio.

Egli si alzò dal piano ma non accennò a ritirarsi, non prese la lucerna. Invitò Lelia, corrugando la fronte come soleva per ogni comunicazione grave, a uscire con lui sul terrazzino che corre lungo la fronte del salone. Lelia non osò resistere, lo seguì, palpitante. Certo il signor Marcello voleva parlare del povero Andrea. E Teresina, che stava lassù in vedetta, che poteva scendere male a proposito! Malgrado la poca speranza di esser veduta, Lelia si voltò a gittarle un gran gesto rapido, un silenzioso «via!» e raggiunse Marcello alla balaustrata del terrazzino.

«Piove» diss’ella, tentando ancora sottrarsi.

Il nebbione fasciava le scogliere del Barco e del Caviogio, un venticello umido tirava da Val di Posina; ma non pioveva.