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380 CAPITOLO DECIMOQUARTO

«Niente» diss’ella. «Basta che Lei stia ferma di ricondurla a casa!»

«Eh sì» ripeteva la siora Bettina. «Eh sì.» E ricominciava: «ohi ohi ohi». Finalmente si alzò e si avviò sulla salita. Lelia le venne incontro per domandarle, in gran premura, se avesse scritto alle monache di Castelletto per annunciare il loro arrivo. La povera siora Bettina aveva tanto smarrita la testa, era tanto presa dalla infezione delle prime bugie, che ne mise fuori un’altra senza necessità, rispose di sì. Avrebbe voluto disdirsi immediatamente, non n’ebbe la forza, non sapeva più in che mondo si fosse.

A pranzo non aperse quasi bocca nè per parlare nè per mangiare, malgrado i rispettosi incoraggiamenti del sior Momi e quelli chiassosi del nuovo curato di Lago, un giovine prete grasso e rubicondo, pieno di buon umore, di barzellette che non tutte piacevano, per buone ragioni di serietà e di decoro, a don Emanuele. La conversazione si aperse e si mantenne a lungo sui meriti di Sua Eccellenza don Tita la cui elezione a Vescovo era oramai conosciuta dal pubblico. Don Emanuele, che si teneva certo di essere il futuro segretario di S. E. e poi invece fu piantato in asso dalla furba Eccellenza che lo lusingava pur non vedendo l’ora di sbarazzarsene, fece con untuosa solennità il panegirico del nuovo Vescovo, da lui stimato, nel cuore, un dappoco, un Superiore da menare facilmente per il naso. Invece il proprio suo naso si trovava spesso in mano di S. E. Non lo lodò per le virtù che possedeva, per la purezza della vita, la solidità della fede, l’abbondanza delle elemosine, ma proprio per quelle che non possedeva, per la dottrina e l’eloquenza. La siora Bettina lo guardava con occhi tristi, inquieti, che dicevano: «vorrei parlarle». Don Emanuele credette leggervi un ritorno agli angustiati dubbi espressigli prima di entrare nella villa e non se ne curò.