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CAPITOLO DECIMOQUARTO |
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nato in punta dalla chiesina bianca di Sant’Ubaldo. Pensò don Aurelio e la propria segreta potenza. Era egli che aveva riferito a Roma, quasi giorno per giorno, fatti, detti e ommissioni del prete sospetto, tutto colorendo in modo da corrispondere non alla realtà grossa, superficiale, ma bensì alla realtà recondita da lui divinata, col suo zelo per la Chiesa, nelle intenzioni del poco degno sacerdote. Così era opera sua il prossimo vescovado dell’arciprete. Era egli che aveva informato lo zio Cardinale sul conto di don Tita, che ne aveva fatto conoscere l’intemerato carattere sacerdotale, l’avversione ai novatori, la bonarietà scherzosa e la piacevolezza che potevano facilmente renderlo popolare. L’idea di riuscire ora nella conquista sul mondo, per il chiostro, di un’anima preziosa in pericolo, gli faceva correre formicolii, spume di letizia nel sangue. Invece di erigere al vento la testa contento del proprio valore, l’abbassò idealmente davanti a Dio, come buon cameriere che il padrone copra di stupefatte lodi per qualche miracoloso servigio. Poi, facendosi tutt’uno col Padrone, componendosi nel cuore una verità divina a santificazione di ogni altro sentimento, trionfò dolcemente di donna Fedele, si appropriò, in certo modo, il decreto provvidenziale che la colpiva d’infermità grave perchè le fosse più difficile di porre ostacolo ai disegni di lui, perchè riconoscesse, nel soffrire, le proprie colpe. La via ch’egli faceva, così pensando, era stata il passeggio quotidiano di don Aurelio. Tutte le innocenti anime delle erbe, delle viti, degli alberi si aprivano all’anima pura e umile di lui che vi sentiva Iddio presente nella sua sapienza e nel suo amore, vi sentiva francescane dolcezze di fraternità, si confondeva con quelle anime in una sola muta adorazione di servo inutile. Il povero don Emanuele, benchè si credesse onorare debitamente San Francesco, passava in mezzo