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362 | CAPITOLO DECIMOQUARTO |
Teresina non seppe leggere in quel misterioso viso se non questo, che vi era incertezza fra il sì e il no. Ne fu consolata. Entrato Giovanni con un telegramma, non giudicò prudente d’insistere, neppure dopo uscito Giovanni, per avere un sì immediato. Il telegramma era del sior Momi, atteso coll’ultimo treno. Annunciava il suo ritorno per l’indomani mattina. Verso le nove capitarono, credendo di trovarlo, l’arciprete e il cappellano. Entrarono in salone senza farsi annunciare, primo l’arciprete col suo strascicato «con permesso».
Lelia stava passando musica; non più “Aveu” ma tutta l’altra musica che ricordava di aver suonato presente Massimo. Si alzò dal piano, annoiata. A parte le sue ragioni speciali di avversione a quei due, non poteva soffrire l’arciprete per il suo tono di famigliarità, per le sue facezie grosse, per la scarsa pulizia della persona. Non poteva soffrire il cappellano per la sua guardatura, per il suo modo di portare il capo, di salutare, di parlare. Gli occhi dell’arciprete le lucevano di un’astuzia evidente, sincera, da sensale di buoi e di grano. Negli occhi acquosi di don Emanuele vedeva una ostentazione antipatica di ascetismo, un’astuzia subacquea, mal dissimulata dal guardar basso. E quel capo, non portato da collotorto volgare ma sempre leggermente chinato in avanti, quel salutare sommesso, quella voce untuosa, lenta, quel continuo atteggiarsi compunto come se andasse a processione tutto in sè raccolto sotto un baldacchino ideale, la irritavano. La sua accoglienza fu glaciale. Non fece accendere le lampade nè portare il solito caffè. L’arciprete avendo accennato al dispiacere di sua cognata per non essersi potuta trattenere con lei, non ebbe una parola di scusa. Il cappellano parlò di certa puerpera di Lago, miserabile, ch’egli desiderava fosse visitata dalle due signore. Lelia si accontentò di domandare dove propriamente abitasse questa donna,