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«AVEU» | 347 |
cugina Eufemia si fu allontanata, egli domandò alla «contessa» se fosse vero che l’amorosa del sior Momi lo avesse bastonato prima di andar via, come raccontavano ad Arsiero. Donna Fedele gli ordinò di tacere. Ella si sentiva veramente sollevata, dopo la confessione, e il momento le parve prezioso. Da fanciulla in poi il suo sogno era stato di poter vedere la morte avvicinarsi senza dolore fisico, nella integrità dei sensi e della intelligenza, con molta dolcezza di poesia nell’anima. Aveva il sentimento di non sopravvivere all’operazione, non provava nessun dolore e, sulla stradicciuola romita percorsa tante volte nella sua gioventù, il tacere contento, a sinistra dei boschi profondi e della breve coppa di prato fiorito, la vocina eterna, a destra, del picciol rivo cadente in un borro, la cara chiesina di tante preghiere, di tante interne lagrime, seduta là davanti nel sole aperto, le placide forme, eterne anch’esse, delle montagne, le intenerirono il cuore. Ella non comunicava intensamente mai col paesaggio, non era una sognatrice. Era una creatura dominata dal senso morale e dal senso del comico, quindi più attirata dal linguaggio e dall’aspetto degli uomini che dal linguaggio e dall’aspetto della natura. Ma in quel momento meravigliò ella stessa della tenerezza che provava per la stradicciuola romita, per la silenziosa scena di bellezza e di grazia, per la voce flebile dell’acqua cadente, per le montagne eterne. Era la tenerezza di un addio. Ella non sarebbe più tornata in quel posto prima di andare a Torino. E dopo...
Dopo, rivedrebbe Marcello? Non ci contava. Chi sa, nell’altra vita, che mutamento anche di sentimenti! Però, pensandovi, le punse acuto il dolore di non essere ancora riuscita ad assicurare l’avvenire di Lelia secondo il desiderio del morto amico, di dover lasciare interrotto il suo lavoro per quel fine. E la tenerezza