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344 CAPITOLO DECIMOTERZO


II.


Donna Fedele era, quel giorno, in condizioni di salute così tristi da renderla straordinariamente irritabile. Aveva dolorato tutta la notte e soltanto all’alba le era riuscito di dormire mezz’ora. La povera vecchia Eufemia, che dormiva nella camera vicina, l’aveva udita più volte lamentarsi, n’era desolata. La sua desolazione, lo stesso zelo che le metteva sulle labbra tante domande inquiete, tanti consigli, tante preghiere, le fruttava soltanto risposte infastidite. L’effetto delle righe di Lelia fu disastroso. Donna Fedele lesse e rilesse il biglietto in presenza della cugina. Lo stracciò. La irritava il rifiuto di venire, la irritava la chiusa che le pareva una romantica rifrittura di frasi fatte: «mi dimentichi, non son degna, mi lasci alla mia sorte!»

Appena lacerato, pensò a Marcello. Lagrime di pentimento le vennero agli occhi. La cugina Eufemia la guardava trasognata. Ciò irritò da capo donna Fedele. «Va là! Va via!» diss’ella. La povera vecchietta, spaventata, perdette la testa, «i vad, i vad», si precipitò all’uscio e invece di cercarne la maniglia a destra la cercò a sinistra, palpando, palpando, tanto che donna Fedele, cadutale d’un colpo tutta la collera, la richiamò.

«Vieni qua, vieni qua» diss’ella, «scusa scusa. Siedi lì e lasciami pensare.»

Pensò, infatti, un pezzo. Quindi si volse alla mansueta cugina che stava lì seduta colle mani sulle ginocchia, guardando un turacciolo di sughero caduto sul pavimento e non osando alzarsi, malgrado il desiderio grande, per andarlo a raccogliere.

«Senti, donna Eufemia» diss’ella.

«Donna Eufemia» mormorò la vecchietta, sentendosi canzonata. «Oh mi povr’om!»