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20 | CAPITOLO PRIMO |
Teresina accompagnò l’ospite proprio nel quartiere dove il povero Andrea si era visto, sognando l’avvenire, con Lelia. Lo introdusse nella cameretta che si apre, a tramontana, sulla terrazza. Accese la luce, vide il lavoro del suo padrone, disse sottovoce «povero signore!» diede a Massimo, con molte scuse, il consiglio di far capire al padrone che aveva veduto ma di non parlare; e si ritirò.
Sul piano di marmo del cassettone una sola splendida rosa bianca si piegava, dall’orlo di un alto e sottile calice di cristallo, sopra la fotografia del povero Andrea. Sul tavolino da notte erano un elegante esemplare dell'imitazione e un piccolo fascio di lettere, legato con un nastro nero. Massimo lo aperse curiosamente. Erano lettere sue al povero Andrea. Aperse poi l’Imitazione, immaginando che fosse pure un ricordo, e vi trovò scritto:
«Al caro Andrea, nel giorno della sua prima Comunione, Rachele Alberti Vittuoni.»
Era il nome di sua madre, morta ella pure da parecchi anni. Vi posò le labbra. Entravano per la finestra aperta, col vento della notte, la voce grave del Posina, la voce sommessa della Riderella che fugge per il giardino a pochi passi dalla villa; nessun altro suono. Nel senso di quel silenzio, di quel riposo, della natura innocente, della maestà della notte, la cameretta gli fu, con i suoi ricordi, una chiesa. Levò le labbra dallo scritto pregando ancora e, spenta la luce, uscì. Sul corridoio lo aspettava Teresina. Il padrone le pareva un poco sovreccitato. Premeva che si ritirasse presto. In fatto il signor Marcello si era doluto dell’assenza di Lelia, non se ne dava pace. Ma questo, la cameriera lo tacque.
Massimo non lo trovò più nel salone. Era in giardino sopra uno dei sedili disposti a ponente della villa. Aspettava Massimo lì, perchè l’incontro avvenisse al buio.