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306 CAPITOLO UNDECIMO

bestia previdente; segno che la maestra, spiegando, non le aveva dato modo di rilevarne l’egoismo villano.

Appena uscita la ragazza, entrò Lelia e trovò l’amica esausta.

«Come potrei lasciarla sola» diss’ella, sedendole accanto, «fino a che sta così?»

Donna Fedele stese la mano, le recitò sottovoce, sorridendo, i versi di La Fontaine:


«La cigale ayant chantè
Tout l’ètè
Se trouva fort dèpourvue
Quand la bise fut venue.»


«Ho telegrafato» soggiunse «a una formica buona.»

Lelia piegò sul letto il viso lagrimoso, vi soffocò il grido dell’anima:

«Non vado, non vado, non vado!»

Aveva ricevuto nella mattina, due lettere; una di suo padre, una dell’arciprete di Velo. La lettera del padre, riveduta da Molesin, era una revoca del permesso di partire con donna Fedele. Tanto la cameriera Teresina, scriveva il sior Momi, quanto la governante si erano improvvisamente licenziate. La prima voleva andarsene subito, la seconda era già partita. La sua salute si guastava ogni giorno più, il ritorno della figlia s’imponeva in modo assoluto. La lettera dell’arciprete, suggerita dal cappellano, era un appello al cuore di Lelia in favore di una povera famiglia di Lago di Velo, che aveva bisogno di aiuto morale quanto di aiuto materiale. Era stata soccorsa dal povero signor Marcello e l’arciprete sperava che la signorina ne continuerebbe l’opera, aggiungendovi il beneficio di qualche visita. Che fra le due lettere vi fosse un nesso, nè Lelia nè donna Fedele sospettarono. Sotto il colpo della lettera paterna Lelia aveva vibrato come una piccola fiera di cuor gentile