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288 | CAPITOLO NONO |
senza misurar molto il valore della parola. Il sior Momi la trovò ghiotta, la ingoiò lentamente, se ne beò nello stomaco, perdonando a Lelia di tenerlo lì in piedi come un servo.
«Sei stata poco bene, vero?» diss’egli poi, con tenerezza patetica. «Cosa? Febbre? Influenza? Indigestione? Anemia?»
Tirò tutte queste interrogazioni di seguito come affrettati colpi secchi di rivoltella.
«Una reumatica» rispose Lelia.
«Ecco, reumatica. E quando ritorni da Torino, vieni a casa?»
«No»
«Ben ben ben ben ben» fece il docile umile genitore, continuando lo sdrucciolone nel dialetto dall’italiano usato sempre colla figliuola, dopo il collegio. Avrebbe voluto prender congedo con un altro bacio ma non osò. Il sior Momi era un furbo realmente timido. Il suo parlare impacciato e tronco, i suoi goffi — aho aho — i suoi irrigidimenti davanti a persone di riguardo erano veramente fenomeni di certa timidezza nervosa, altro dono, prezioso quanto il viso cretino, che serviva come un grosso colore di verginale innocenza sopra le linee fini dei suoi disegni. Anche la superiorità intellettuale e morale, il contegno altero della figliuola gli mettevano soggezione.
«Scriverai?» borbottò nell’uscire.
La risposta di Lelia fu: «addio». Il sior Momi discese le scale, non dimenticò donna Fedele, le si presentò, duro duro: «complimenti, complimenti, contentissimo, felice viajo, desidero.»
E infilò la porta, meditando già di riferire al caro Molesin che aveva dovuto cedere, che la figliuola gli era stata ostilissima, che non c’era da godere alcun pezzo di quella torta, a meno, Gesummaria di rubarlo.