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286 | CAPITOLO NONO |
perchè Lelia, diventata maggiorenne, gli concedesse un largo trattamento; dare a bere al caro sior Checco quanto importasse per ottenere a buoni patti il concordato coi creditori. Comprendeva che Molesin mirava a fargli tirare la figlia in casa collo scopo che tenendovela, dominandola, impedendole un matrimonio qualsiasi, egli diventasse di fatto padrone della sostanza Trento, e poi scendesse ad altri patti coi creditori per la paura che gli lavorassero contro la ragazza. Le sue proprie mire non andavano a quella piena conquista. Tenersi insieme in casa la figlia e la Gorlago non era possibile. Lelia lo avrebbe piantato subito e male. Licenziare la Gorlago gli era meno possibile ancora. Avara come lui, energica più di lui, ella lo appassionava colla propria sensualità zotica e violenta. Nè l’uno nè l’altra si erano fedeli. Eppure, a modo loro, si volevano bene. Litigare, talvolta infernalmente, sì; separarsi, mai.
Il sior Momi s’inoltrò pian piano per il viale dei tigli che parte dal cancello, fece il giro del villino, non sapendo quale ne fosse l’entrata ufficiale, se la veranda della facciata o la porticina del lato opposto. Battè molto le palpebre e infine preferì, per istinto, porgere il capo, umilmente, dentro la porticina. Al suo «con permesso» seguito da una gran soffiata di naso, la cameriera discese correndo le scale, lo introdusse in salotto, andò ad avvertire la signora.
All’opposto del dottor Molesin, il sior Momi, davanti a persone di riguardo, s’irrigidiva. Al vederlo così stecchito, con quel muso di cartone e le palpebre rosse battenti sugli occhi vitrei, donna Fedele si domandò ancora se fosse un volpone o proprio uno stupido. Mentre gli ripeteva, presso a poco, le cose scrittegli, egli emetteva delle frasi rotte, dei ringraziamenti senza oggetto, degli «eh capisco» inintelligenti, dei «lascio