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NEL VILLINO DELLE SPINE 277

— si era confusa colla forma del disegno funesto; ella dubitava di averlo posto in opera senza morirne. Donna Fedele l’abbracciò e se ne sentì alla sua volta abbracciare, baciare, bagnar di lagrime, chiudere, quasi, nella vampa e nell’odore di una febbre ardente. Durò fatica a sciogliersi dall’abbraccio, a ricomporre la fanciulla sotto le coltri. Suonò per la cameriera, ordinò che si mandasse il custode a chiamare il medico.

Si vestì con doloroso sforzo e, quando il medico venne, lasciata la cameriera presso Lelia, gli confidò quello ch’era strettamente necessario confidargli. La ragazza era uscita di notte in un momento di grave agitazione morale, determinata da fatti familiari. Era caduta presso il cancello, aveva perduto i sensi. Le si era fatto credere, per rispettare i suoi intimi sentimenti, che si attribuiva la sua uscita notturna a un fatto di sonnambulismo. Il medico era pregato di regolarsi così nel discorrere coll’ammalata. Questa si rifiutò di prendere checchessia, nè medicine, nè cibo di alcun genere. Era sovreccitata dalla febbre alta e parlava, parlava, quasi continuamente. Parlava sempre di sonnambulismo e di sonnambuli. Non si tradì mai. La sua preoccupazione morbosa era di fornire conferme al giudizio di donna Fedele. Solo una volta cambiò di argomento. Nominò il povero signor Marcello e, guardando l’amica, s’intenerì. La febbre declinò verso sera. Le successe un periodo di taciturnità cupa. Il medico venne a notte, la trovò quasi sfebbrata, cercò di scherzare. Smise subito, tanto il bel viso pallido si fece ostile. Trovò invece accesa in viso, febbricitante, la padrona di casa. La vera causa delle sofferenze di donna Fedele era ignota a lui come a tutti. Egli attribuì il suo stato a stanchezza, le raccomandò di dormire sola, in pace. Ella sorrise e tacque. Non era la pace, per lei, dormir sola. La pace, per lei, era donarsi tutta a quella giovine, non tanto