Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
270 | CAPITOLO OTTAVO |
storia raccontata a Molesin, credeva soltanto che fosse utile raccontarla. E lo capiva. Capiva perfettamente che fosse utile di seminare discordia fra la Vayla, tanto avversa a lui e al cappellano, e il nuovo padrone della Montanina, il quale avrebbe potuto far molto per la chiesa, bisognosa di riparazioni, di panche, di pavimento. Capitatogli fra i piedi l’amico Molesin, aveva intuito come quello fosse un canale buonissimo da versarvi le parole che avrebbero posto in guardia Camin contro donna Fedele e preparata, fra il clero di Velo e il sior Momi, un’alleanza vantaggiosa per la chiesa e per i poveri della parrocchia. Non credeva che donna Fedele avesse fatto fuggire la signorina di notte a quel modo pericoloso, mentre le sarebbe stato tanto facile di farle prendere il treno ad Arsiero come lo aveva preso altre volte, sola, per andare a Seghe o a Rocchette; ma don Emanuele gli aveva asseverata la cosa ed egli credeva quindi poterla dare, in coscienza, per vera. E si era interdetta qualunque indagine. «Se don Emanuele» pensava «sa una cosa e ne dice un’altra, buon pro gli faccia. A me va bene questa.» Infatti don Emanuele sapeva che le persone di servizio del villino credevano a un tentativo di suicidio, per certi pezzi di carta scritta che poi le avevano trovato in camera. Supponevano che la ragazza intendesse appiattarsi nel bosco, sotto la chiesa del Camposanto di Arsiero, per aspettarvi il treno delle quattro e gittarsi sulle rotaie, o saltare nella roggia che taglia la strada di Seghe volgendo verso la Pria.
Molesin ascoltò molto attentamente il racconto. Se le cose stavano a quel modo e se ora Momi consentisse a lasciar viaggiare sua figlia colla Vayla, bisognava aspettarsi il peggio. Colei farebbe scappare la ragazza e bravo chi la scova dopo. Pochi mesi ancora e arriva Spazzacamin. La ragazza assegnerà una pensione a suo