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266 CAPITOLO OTTAVO

«Allora La diventa un poco vescovessa anca Ela» disse lo scherzoso dottore. E pensò: «saprà qualchecosa, costei? Sarà cagna come quell’altra? La pregò di non avvertire, di non incomodare nessuno. Era disposto ad attendere. Magnificò la virtù di don Tita, che meritava, meritava! La serva lo fece entrare nel salotto di ricevimento. Colà, seduto sul canapè, raccontò aneddoti del tempo in cui egli e l’arciprete facevano il ginnasio insieme. «Bela elezion!» esclamò finalmente. «Gran bela elezion! Sala cossa? Vado in ciesa anca mi. Ma prima La me cava una curiosità.»

Le domandò se conoscesse la signorina Camin, quella che stava col vecchio Trento. La fantesca fece il viso brutto. Lo sapeva bene, il signore, quello ch’era successo? No, non sapeva niente. «Madre Santa, la ga tentà de scapare.»

«De scapare?» fece Molesin, sbalordito. Udite voci di fuori, la fantesca esclamò «eccoli!» e corse via. L’arciprete e i suoi due compagni erano di ritorno dalla chiesa. Confabularono colla serva fuori della porta e il solo arciprete entrò nel salotto.

Egli lesse nel viso di Molesin un tale stupore che non dubitò nell’interpretarlo: «la ciacolona ga ciacolà». Sentiva trasfigurato il proprio stesso viso dall’emozione interna. Non aveva bisogno, lo sentiva, di parole per confermare la notizia data dalla fantesca. Disse solamente «caro» e abbracciò, colle lagrime agli occhi, l’amico del quale non aveva mai voluto credere che fosse un ipocrita, un disonesto. Erano lagrime sincere, pregne di sensi diversi. Vi era il senso trepido del suo innalzamento, per volontà di Dio e del Vicario di Cristo, a una dignità onde a lui, uomo di ferrea fede, appariva, non lo splendore esterno e mondano, ma l’importanza religiosa. Vi era il senso tenero della fiducia dimostratagli dai Superiori. Vi era un ravviva-