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262 CAPITOLO OTTAVO

potesse montare coll’arciprete per venire in chiaro del suo piano ch’era quello appunto di far credere fredde le proprie relazioni colla figliuola e di conquistarsela invece segretamente. Battè ancora due o tre volte le palpebre prima di saperle contenere, e poi intraprese, coll’ospite, l’ispezione della villa, applicando regolarmente il solito riso adulatorio alle osservazioni di Molesin. Le scale del salone, il camino, le policromie dei soffitti, il testone della terrazza, il fresco del Beato Alberto Magno sulla facciata di mezzogiorno, tutto era giudicato dal Dottor Sottile colle stesse parole: «mato ingegner, mato pitòr, mato paron». E Momi faceva eco: «Mati mati, aho aho». Solamente le soffitte ebbero un grugnito di approvazione. Il sacco della Carolina era ancora nella camera delle rondinelle. Molesin lo notò e il sior Momi se ne accorse. La Gorlago stava visitando la villa per proprio conto. I due la incontrarono sulla scala del salone, nel discendere.

«Ohe» le disse Camin con un fare da padrone duro, «quel sacco, a posto!»

La donna gli diede un’occhiata rabbiosa e tirò via. Molesin la seguì cogli occhi fino al pianerottolo superiore.

«Caro Momi» diss’egli, posando una mano sulla spalla dell’amico e articolando lentamente le parole per farne sentire il doppio fondo, «go paura che i carateri, digo i carateri, de so fiola e de sta siora qua no i se convegna.»

«Aho, parcossa?»

«Gnente.»

«Aho aho! Òl d’un!» Il sior Momi, pratico di doppi fondi e solito renderli innocui colle sue risate cretine, vi aggiungeva, nei casi più gravi, questo «òl d’un!» questo ridente smozzicato «fiol d’un can!» giocoso insulto ammirativo di una malizia canagliesca.