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252 CAPITOLO OTTAVO

Portava un cappello di paglia, un lungo zimarrone color oliva, vecchio di un secolo, una sciarpa, sulle spalle, di seta rossa e gialla, pronta a riparare il collo padovano dai temuti aliti delle montagne iperboree di Val d’Astico. Per consiglio dell’amico anche il dottor Molesin, chiuso in un soprabito marrone, portava intorno al collo una pesante sciarpa bianca e nera. Il dottor Molesin non somigliava per niente all’amico. Più vecchio di lui, pareva più sano. I piccoli occhi cisposi del sior Momi avevano una fissità vuota di qualsiasi espressione. Quelli del sior Checco, piuttosto grandi e bruni, spiravano, sotto il decoroso cappello di feltro, certa gravità malinconica. Erano malinconici anche nel sorriso. Molesin non portava che baffi, due baffetti fra biondeggianti e grigi sotto le narici selvose. La donna grandeggiava accanto al piccolo vetturale, un ragazzo, sotto un modesto cappellino nero, un boa mezzo spelacchiato, un mantelletto nero, una sottana cenere. I due viaggiatori dell’interno parevano alquanto preoccupati dell’età giovanile del cocchiere. Il dottor Molesin, particolarmente inquieto, non osava abbandonare il dorso allo schienale della carrozzella, perseguitava d’interpellanze, con detrimento della propria gravità abituale, il ragazzo: « - Ciò, digo! - A pian, digo! - Perchè i me par siti da romperse el colo, digo!» L’altro non era certamente un viaggiatore intrepido ma forse il timore di una ribaltata non era, nel suo cuore, la inquietudine più grossa. Aveva notato il broncio della Carolina e le blandiva spesso le spalle poderose con parole di affettuosa premura: «Se tienla? - La se tegna! - La se tegna, sala!» La grossa Carolina stringeva forte colla sinistra il ferro del serpe, ma non degnò mai rispondere. Passato il ponte del Posina, che fece rabbrividire Molesin, la carrozzella si mise al passo.

«Signor, Ve ringrazio» mormorò il sior Checco.