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246 | CAPITOLO SETTIMO |
d’acqua. Guardò l’orologio. Erano le dieci e mezzo. Mancavano due ore all’ora in cui aveva stabilito di uscire per andare a gittarsi dal ponte nella roggia silenziosa e rapida.
Sedette al tavolino, sotto la luce, colla persuasione che fosse conveniente di scrivere due parole. Scrisse:
«Cara amica, vado a morire non so perchè, ma so ancor meno perchè dovrei vivere.»
E adesso? Chieder perdono? Di che? E se non era per chieder perdono, a che scrivere? Per un saluto? Donna Fedele ricorderebbe i suoi ultimi baci. Neppure le venivano in mente parole opportune, non era più nel suo interno che duro gelo di volontà, tesa per l’azione. Lacerò lo scritto, si alzò dal tavolino e cambiò vestito. Quello che indossava, di stretto lutto, glielo aveva prestato donna Fedele. Mise il vestito grigio che aveva messo per venire al villino. Prese quindi la borsetta di rete di argento, regalo del povero Andrea, dove teneva pochi altri ricordi di lui. Nella rete era inserta una piccola piastra col nome incisovi: Leila. Gli occhi le caddero sulla piccola piastra, sul nome che le ricordava una disputa. Depose e riprese la borsetta più volte, incerta se lasciarla o portarla con sè. Un impulso interno la costrinse a lasciarla. E in quello istesso istante tutto il gelo del cuore le si fuse in una subita tempesta di desiderio. Tornò ad aprire la finestra, disfrenò il desiderio, gittò l’anima là, là, dovunque egli fosse: ti amo, ti amo, mi dono, prendimi, prendimi intera prima che io vada a morire, baciami, baciami, fammi male con i tuoi baci! Aperse e distese le braccia, si torse tutta in uno spasimo. Si raccolse e calcò un braccio sulla bocca, lo morse ansando, vi tenne i denti fino a che non le si chetò il batter violento del cuore e delle arterie. L’orologio di Arsiero suonò le undici. Tolse dalla borsetta di argento una fotografia del povero Andrea, vi scrisse sotto: