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200 CAPITOLO SETTIMO

Donna Fedele la pregò di suonarle qualche cosa. Così al buio? Sì, così al buio. Il vecchio piano del villino dormiva in pace da molti mesi, perchè la sua padrona, discreta musicista in gioventù, aveva abbandonata l’arte, non lo toccava più che qualche rara volta, per divertire dei bambini. Lelia suonò una composizione del povero signor Marcello, l’unica sua, una barcarola scritta trent’anni addietro. Terminato ch’ebbe il pezzo, aspettò in silenzio una parola dell’amica, una domanda di altra musica. L’amica non parlò. Non parlarono che il tic-tac frettoloso di un orologio a sveglia e, dalla finestra aperta di ponente, un lieve mormorio di pioggia sulla ghiaia.

«La conosce, vero, questa musica?» disse Lelia.

La dolce voce rispose piano, dall’ombra:

«Oh sì.»

Quel piano, dolce «oh sì» disse alla fanciulla tante cose già vagamente da lei pensate. Si alzò dal piano, andò verso l’angolo del salotto ond’era venuta la voce, si chinò su donna Fedele, le cercò le mani e senza proferir parole, gliele baciò, una dopo l’altra. Donna Fedele si concedette dolcemente a quei baci che dicevano: «Son donna e ti ho intesa.» Avevano anche un secondo significato, ancora segreto.

«Non suoni più?» mormorò donna Fedele, subito. Era stata contenta dei baci; avrebbe avuto orrore di una parola. Lelia non rispose. Le teneva sempre le mani, le stringeva.

«Vuoi che andiamo a letto?» riprese la prima. Allora Lelia lasciò andare le mani. «Lei» rispose «deve andare a letto. Io, se permette, resto un poco a suonare.» E accese la luce. Donna Fedele si alzò dalla sua poltrona, sorridendo. «Brava!» diss’ella. L’abbracciò e, suonato per la cameriera, si ritirò.

Lelia attese immobile, in piedi, che si perdesse sulla