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VERSO L'ALTO E VERSO IL PROFONDO 231

non vederla più, sul verde fuggente della valle incantevole. E li richiuse per vederla ancora. Vide l’ovale biondo della testa chinata sul petto, come a nascondere il viso. Vide poi le due piccole bianche mani che si alzavano, che si alzavano lentamente, lentamente, restando immobile l’ovale biondo, che gli si posavano sulle spalle. Riaperse gli occhi trasalendo, gli parve che le mani si ritirassero, ma non vide il verde lucente, vide ancora l’ovale biondo. Il treno entrò tuonando nella galleria di Mea. Si sentì allora le dolcissime braccia intorno al collo, il dolcissimo viso sul viso, e baci, e lagrime, e un ripetere «ti amo, ti amo, ti amo». Il respiro gli si fece greve. Pensò, accorgendosene: che stupido sono! E la mia torre di orgoglio?. Mise il viso al finestrino, guardò il fuggire dei rami e dell’erba, dicendosi nel cuore: stupido stupido stupido! Aveva poi detto «quasi» donna Fedele, la prima volta. Era lei, era lei, che cercava di accomodare. Però, se fosse! Gli si riapersero in mente gli occhi magnetici, dalle subite fiamme. Tolse il viso dal finestrino, si cercò in tasca un giornale che non c’era più, salutò il viaggiatore scusandosi di non averlo riconosciuto e parlò con lui della ferrovia che sarebbe salita un giorno da Rocchette ad Asiago.

A Vicenza dovette aspettare due ore. Non vi conosceva nessuno. Andò camminando su e giù lentamente per i viali che mettono alla Stazione e sotto i platani volti in colonne oblique dal Caffè Turco al ponte sul Retrone. Erano le cinque, faceva caldo, radi oziosi camminavano, com’egli, in silenzio per le ombre afose. Ebbe l’idea di venir a vivere in quella piccola città pacifica, ignoto. No, Velo era troppo vicina. Rientrò alla Stazione mentre vi si gridava: «Thiene-Schio!».

Prendendo quel treno sarebbe arrivato prima di notte al villino delle Rose. Addio addio, verdi valli, correnti limpide, rose ondulanti al vento delle montagne! Entrò nel caffè, vi