ogni giorno più declinante, nell’aspetto e nel portamento, verso l’ultima vecchiaia, ogni giorno più indifferente alle cose terrene, fuorchè alla musica e, un poco, ai fiori, più raccolto nei pensieri delle cose eterne, egli aveva finito con ispirarle riverenza filiale, con farle spesso dimenticare i sentimenti provati al primo suo ingresso in casa Trento. Il caso del deliquio inavvertito, la faccia, più che le parole, della cameriera Teresina, la turbarono di un’afflizione sincera, benchè la sua mente fosse tanto presa dall’annunciato arrivo di Massimo Alberti. Tre anni erano trascorsi dalla morte di Andrea e, dopo i funerali dell’amico, Alberti non si era più fatto vedere alla Montanina. Solo si ricordava negli anniversarii e a capo d’anno, affettuosamente, al signor Marcello. Questi glien’era riconoscente, ne parlava, in quelle occasioni, a Lelia, si doleva qualche altra volta con lei di non averlo più riveduto. Lelia lasciava sempre cadere il discorso. Le spiacenti parole del povero Andrea non le erano mai uscite dalla memoria e la tenacità di questo suo ricordo le dava noia, disgusto di sé stessa. Se udiva quel nome dalle labbra del signor Marcello, vi sentiva una specie di persecuzione; e difficilmente il signor Marcello lo pronunciava senz’aggiungervi qualche parola di stima o di simpatia, che la irritava di più. Tale istintiva repulsione, invece di attenuarsi coll’andar del tempo, si era venuta aggravando. Ella non potè a meno di associarla, nelle sue riflessioni, all’impallidire dell’immagine di Andrea e ad altri oscuri moti dell’anima sua: tristezze senza nome, fiamme di allegrie inesplicabili ch’ella durava fatica a comprimere, lagrime provocate dalla musica, ebbrezze brevi ma quasi paurose comunicatele dalla vita della natura, da prati in fiore, da boschi nel rigoglio fresco del giugno. Il senso di questi moti oscuri non le sfuggiva interamente. L’idea di tendere all’amore, di esservi tratta da istinti ciechi