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226 CAPITOLO SETTIMO

avviarono lungo l’Astico, grosso e sonante per una gran pioggia caduta nella notte. Ella parlò della sventura, ricordò i segni premonitori, i particolari dell’ultima sera, il temporale, i fiori portati all’aperto, il denaro deposto sulla scrivania, la lucerna trovata accesa, l’aspetto del cadavere. Parlava quieta quieta, nel triste rombo delle acque correnti, che stringeva il cuore. Stringeva il cuore anche il riso dei prati e dei pioppi nel vento. Di Lelia non fu detta una parola, perchè il vetturino avrebbe udito. A San Giorgio il custode del cimitero indicò loro una macchia nera di terra smossa e si tenne in disparte. Donna Fedele, che aveva portato con sè due rose, ne diede una a Massimo. S’inginocchiarono nell’erba, posarono le rose sulla terra smossa, senza sfogliarle, pregarono in silenzio, mentre il custode era alle prese con una frotta di fanciulli curiosi, sdrucciolati dentro il cancello. Quelle voci disturbavano, parevano offendere anche il povero morto. Donna Fedele si alzò, ordinò ai fanciulli di inginocchiarsi e di stare zitti. Obbedirono, affascinati dal suo impero dolce. Ella ritornò dove Massimo l’aspettava. Rimasero ancora due minuti. Egli ebbe l’impressione di un sentimento, in lei, più forte del suo proprio. Del passato non sapeva niente e questa impressione lo distraeva, lo faceva pensare più a lei che al morto.

Prima di risalire nel biroccino, ella gli disse che desiderava parlargli di cose delicate. In carrozza non era possibile per la presenza del vetturino. Nella sala d’aspetto di Seghe non era piacevole. Propose di passare il ponticello di legno che congiunge Seghe alle case dette gli Schiri e di prendere il sentiero ombroso che scende sulla sinistra dell’Astico.

«Devo parlarle di Lelia» diss’ella quando, lasciato il biroccino presso l’ufficio postale di Seghe, si misero per un viottolo fra casupole nere. «Devo?» pensò