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216 | CAPITOLO SESTO |
dere a sè stesso, di fare quanto stava in lui perchè lo zio non lo considerasse un ostacolo, un limite, alle sue buone opere.
IV.
Prima di pranzo quel tale amico venne a cercare di lui. La dama, desolata di non averlo avuto a colazione, sperava vederlo la sera. Non era una sera di ricevimento. Alberti non avrebbe trovato che pochi intimi.
Vi andò alle nove e mezzo. Trovò la dama sola con una sua figliuola nubile, una signorina sui venticinque anni. La dama non l’aspettava così presto e quasi ne parve inquieta, tanto temè in cuor suo che fosse venuto presto per partirsene anche presto, ciò non essendo nei disegni di lei. Fu molto gentile, gli parlò di questa morte che lo aveva turbato, s’informò del morto, della villa, del paese. In breve il povero signor Marcello fu da lei sepolto e dimenticato. Passando dallo stile compunto allo stile scherzoso, ella domandò, sorridendo senza dirne il perchè, se Praglia fosse molto lontana da Velo d’Astico. Massimo diventò rosso e stava per rispondere che era lontana quanto tutte le lingue milanesi, meno la sua propria, messe in fila, quando, per fortuna, sopraggiunsero due signore e due signori, accolti molto festosamente dalla signorina, che con Massimo era stata quasi impertinente, aveva persino letto un giornale mentr’egli parlava della Montanina e del signor Marcello. Le due signore erano straniere. Una di esse, giovine e bella, era russa; l’altra, vecchia e brutta, era svizzera. Il più anziano dei due signori era un professore di Pavia, grande e grosso, mal tagliato, rumoroso e galante. L’altro, giovine e piccolo, era un uomo po-