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200 | CAPITOLO SESTO |
sporre dei proprii averi secondo ragione, ma poi il suo ritornello mentale era: «troverà quel che troverà.»
Dopo la morte della moglie l’ingegnere non faceva nessun conto del danaro. Viveva con una piccola parte delle sue rendite discrete. Il resto era, misuratamente per Massimo, senza misura per quanti bisognosi facessero appello alla sua carità, per Istituti pii e persino per il piccolo Comune dove aveva villeggiato con sua moglie durante lunghi anni.
Un mese prima del suo viaggio a Velo d’Astico, Massimo tenne due conferenze all’Università Popolare sui Riformatori italiani del Secolo XVI. Vi sostenne la tesi che se quegli uomini, alcuni dei quali esaltò per l’ingegno e la virtù, non si fossero ribellati all’autorità della Chiesa, le loro idee avrebbero fatto maggior cammino, con vantaggio della Chiesa stessa. L’ingegnere ne fu scandolezzato al pari di quasi tutti i conservatori milanesi, che si accordarono con radicali e socialisti nel gridare la croce addosso al conferenziere. Per i primi egli era un eretico ipocrita, per i secondi un debole, quasi un vigliacco, per tutti un sognatore. L’ingegnere si sfogò con qualche amico, fra gli altri con un prete, certo don Santino Ceresola, generoso uomo, infervorato nelle opere di carità, che appunto allora ne pensava una molto bella ma superiore anche molto alle sue forze. Egli aveva già ottenuto dall’ingegnere somme rilevanti per altri scopi e adesso non potè a meno di pensare che, se avvenisse una rottura fra zio e nipote, ne potrebbe approfittare il suo futuro Pensionato di studenti delle scuole medie. Quando aveva in mente una Istituzione di carità da fondare, o almeno da soccorrere, un’idea buona qualsiasi da porre in atto, se ne invasava e gli pareva che tutti avessero a diventarne egualmente invasati, a profondergli denaro in proporzione delle loro sostanze. E nella sua testa le propor-