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198 CAPITOLO SESTO

evangelici. Parsimonioso per sè, era largo al nipote Massimo, orfano e in cattive condizioni di fortuna. Gli voleva bene piuttosto per un dovere di coscienza che per impulso del cuore. Il suo cuore era tutto raccolto in un culto sacro, nella memoria della sua povera moglie, morta da qualche anno senz’avergli dato figli, donna di esemplari virtù cristiane, di vivace intelligenza, di modi soavi, che aveva fedelmente amato il marito malgrado le sue scarse attrattive fisiche, le inettitudini alla vita sociale, certe piccole stranezze incomode, le resistenze a quel ragionevole spirito di modernità cui ella avrebbe volontieri aperta la casa e conformate le abitudini del vivere. Non prese il nipote presso di sè per non dover modificare il proprio antiquato regime di vita e quello dei suoi vecchi domestici, un cuoco e una cameriera, che gli erano affezionatissimi. Gli assegnò invece tre stanze al secondo piano della stessa sua casa, dove la moglie del cuoco gli faceva il servizio. Nel trattare col nipote, l’ingegnere era sempre un po’ impacciato, non proprio cerimonioso, ma piuttosto gentile che cordiale. Il padre e la madre di Massimo avevano sciupate le loro sostanze vivendo troppo signorilmente; e delle abitudini signorili di Massimo lo zio pareva quasi aver soggezione. Nell’offrirgli, come al parente più prossimo, il proprio benefico appoggio, un quartiere, un assegno, la mensa quando gli piacesse, se n’era quasi scusato come di una offerta inferiore alla sua condizione. Avrebbe trattato Massimo con più schietta familiarità se non avesse sentita una gran distanza fra il nipote e sè, distanza sentita pure da Massimo, penosamente. Non era soltanto distanza di abitudini; era sopra tutto distanza d’idee. In politica l’ingegnere era un giudice appassionato dei partiti e degli individui di tendenze opposte alle sue. Discorrendone nell’intimità andava facilmente, se contraddetto, fuori dei gangheri, una irascibilità strana