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122 CAPITOLO TERZO

«Devo andare a Mea» diss’egli, con quell’aria di gravità, d’impenetrabilità e di compunzione, con quel tono di Dominus vobiscum, che donna Fedele non poteva soffrire. Ella ebbe un altro lieve scatto.

«Va bene. L’accompagnerò io. Ho la carrozza.»

«Scusi scusi, signora; vado a piedi.»

Parve a donna Fedele che le parole frettolose, le sopracciglia aggrottate, gli occhi bassi, dicessero un pudibondo timore, almeno di dare scandalo. Fu per dargli dello sciocco in viso ma si contenne.

«Verrò a piedi anch’io» diss’ella. «La carrozza ci seguirà.»

Don Emanuele si contorse ancora un poco, ma non disse parola. Donna Fedele non avrebbe creduto, due minuti prima, di poter fare mezzo chilometro a piedi. Ora si sentì nei nervi una energia capace di portarla fino a Vicenza. Pescò all’albergo del Sole il suo vetturino che, appena giunto a Velo, aveva legato il cavallo a un’inferriata per mettersi a contendere imprudentemente con un vino più gagliardo di lui. Appena oltrepassata la piazza, i due cominciarono a discorrere, seguendoli, a distanza, la carrozzella. Il prete camminava come se il suolo gli bruciasse i piedi, come se cercasse di stancare la sua persecutrice.

Ella gli dichiarò, asciutto e netto, che, per sue particolari ragioni, il giovine Alberti le stava molto a cuore. Sapeva benissimo che gli erano attribuite delle idee religiose non ortodosse. Sperava che gli fossero attribuite a torto ma insomma non le conosceva, non se ne intendeva, non voleva occuparsene. Ora lo si accusava, in canonica, d’immoralità. Qui, anche lei era giudice. Voleva sapere. Le era necessario di sapere. Ne aveva parlato all’arciprete. Chi sapeva, le aveva detto l’arciprete, era il cappellano. A questo punto il cappellano fece un gesto di acquiescenza.