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120 | CAPITOLO TERZO |
zaga non come altri potrebbe invocare lo spirito di un giovine nobile e puro, morto in servizio di Dio e degli uomini, che s’infondesse all’anima del supplicante per innalzarla seco nella regione della purezza eterna, ma come un principe deificato, che stando sul trono in pompa magna, cinto di fiori e di angioletti alati, piegasse il capo, benignamente, verso di lui e comandasse al demonio di lasciarlo. Così pregava, come poteva, il povero don Emanuele, inorridito dall’asprezza delle tentazioni dalle quali avrebbe voluto farsi credere immune; ed è da ritenere che Iddio, cui sono aperte tutte le origini e tutte le cause, gli fosse molto più clemente che donna Fedele; la quale, pregando contro le intenzioni del cappellano, avrebbe fatto, se Iddio l’ascoltava, una bella frittata. Poco dopo aver udito una persona entrare in chiesa, don Emanuele finse, nel porsi a sedere, di guardare se il sedile fosse sgombero, sbirciò la signora e si pose a leggere il breviario. Egli ricambiava, nel suo coperto modo particolare, l’avversione di donna Fedele. L’offendeva quella sincerità franca di lei, fatta più irritante dal tono mansueto della voce. E la sapeva amica di don Aurelio, amica del giovine Alberti, due persone ch’egli abborriva di un abborrimento pio; credeva detestarne le idee e non le persone. Sentendo fra don Aurelio e sè un indistinto ma profondo dissenso, provando per lui un’avversione istintiva, era tratto ad attribuirgli, per comodità della propria coscienza, idee veramente detestabili, opinioni veramente indegne di un cattolico qualsiasi nonchè di un prete. E lo irritava la irreprensibilità sì delle sue azioni che delle sue parole. Per lui, don Aurelio era un ipocrita. Di Alberti poi, per quello che ne aveva letto nei giornali, per quello che gliene avevano scritto da Milano, sentiva una specie di ribrezzo. L’amica dell’uno e dell’altro non poteva essere troppo diversa da loro.