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118 CAPITOLO TERZO

derio sincero di servire Iddio. Partita la fantesca ella gli disse, molto pacificamente, che aveva serie ragioni di voler sapere il vero circa le accuse che riguardavano il giovine Alberti. Don Tita, presto rabbonito, si trincerò e chiuse nella frase del segreto altrui, ma per aprire subito un usciolino, compiacendosi di fare, quasi di soppiatto, cosa grata alla sua interlocutrice. Il segreto era del cappellano. Guai se il cappellano sapesse che il segreto non è ben custodito! — È mio padrone, sa. — La capisce — un scheo de cardinal, digo mi — un centesimo di cardinale. L’arciprete chiamava così don Emanuele quando presumeva di parlare con un avversario del cappellano. E ora non s’ingannava davvero perchè nessuno al mondo era tanto antipatico a donna Fedele quanto il cappellano di Velo d’Astico. Ella domandò subito di parlargli e don Tita si affrettò ad andarne in cerca. Donna Fedele si tenne sicura che il cappellano non sarebbe venuto e infatti don Tita ricomparve, dopo un’assenza lunghetta, a dire, mogio come un cane frustato, che il cappellano era fuori.

«Ritornerà» disse donna Fedele, alzandosi. Sì, certo, don Emanuele sarebbe ritornato, ma difficilmente prima di mezzogiorno. Erano le nove e mezzo. Donna Fedele non poteva restare due ore e mezzo in canonica. Uscì senza dire le proprie intenzioni. Domandò a una contadina seduta sulla porta del suo casolare, a due passi dalla canonica, se avesse veduto don Emanuele. Quella rispose: «El xe passà adesso, signora. El xe andà in ciesa».

Donna Fedele si voltò di scatto, credette vedere sparire precipitosamente in canonica la tonaca dell’arciprete che avesse, dall’ingresso, spiati i suoi passi, salì la gradinata, entrò in chiesa, vide il cappellano che, inginocchiato nella prima panca davanti all’altar maggiore, pregava fervorosamente. Stese per istinto la mano alla pi-