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116 CAPITOLO TERZO

«Io, signora? M’interesso...? No, sa, signora. Proprio no, sa.»

Donna Fedele pensò: adesso, il bitorzolo!

«Come, niente» esclamò sorridendo, «se vuol farle sapere che deve guardarsi da un certo Alberti perchè questo Alberti ha un intrigo con una signora maritata?»

L’arciprete, fulminato, credette a una incarnazione del diavolo in donna Fedele. Balbettò «come come, come?» e, riprendendo gli spiriti smarriti, chiamò in cuor suo — mostra mostra mostra! — la sua serva che sola aveva potuto origliare, udire, chiacchierare. E intanto non rispondeva. Donna Fedele attese un poco e poi gli domandò, colla sua dolce flemma spietata, se negasse o confermasse la cosa.

«Nego» rispose don Tita riavendosi dal colpo. «Posso negare, signora. Nego di avere alcun interesse in questa faccenda. La sapevo, signora, ma il segreto non era mio.»

Donna Fedele si rimproverò mentalmente di non avere contati, questa volta, i — signora — dell’arciprete. Un’altra volta ne aveva contati o almeno pretendeva averne contati cento e uno in mezz’ora. Riprese la sua fredda opera di tortura.

«Vede, arciprete» diss’ella, «se qui si sa molto di quello che si fa e si dice in casa mia, è giusto che in casa mia si sappia un pochino di quello che si fa e si dice qui.»

Donna Fedele era convinta che la serva dell’arciprete avesse l’incarico di spillare alla sua ortolana tutto il possibile della padrona, di don Aurelio, di Carnesecca e di Massimo Alberti. La serva poi, per comprare, vendeva. E l’ortolana chiacchierava colla cameriera. Donna Fedele non voleva saperne di pettegolezzi, rimproverava le sue donne, ma non poteva turarsi gli orecchi; e stavolta, per verità, li aveva aperti bene.