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TRAME | 111 |
subitanea, la pregò di aspettare fuori dell’uscio; un momento, un momento solo! Andò egli stesso a chiuder l’uscio con un gran colpo che lo lasciò aperto; poi si mise a declamare, sulle facce meravigliate della siora Bettina e del cappellano:
«Sentì, cugnà, sentì, capelan. Vualtri no parlarè, ma mi ve la digo. Savìo quel toso de Milan che xe alla Montanina, che xe ligà le buele là col curato de Lago; savìo che perla ch’el xe? El se la intende, capìo, a Milan, perchè mi lo so, co una siora che ga marìo, tosi...»
«Géstene!» mormorò la siora Bettina. «Anca tosi?»
«Ciò» rispose piano don Tita «la xe maridà, ah?» E riprese a voce alta: «Speremo che nol gabia dele idee, quel berechin, su sta fiola qua che xe col vecio Trento. Se lo savesse so mama, pora dona!»
Detto questo, don Tita si alzò, disse sottovoce «fato, fato, fato» e guardando don Emanuele coll’aria di chi a un collega d’arte si mostrò maestro, avvicinossi all’uscio in punta di piedi, lo spalancò d’un colpo, gridando:
«Dove xela...? Ah, scusè!» diss’egli, perchè la donna era lì, mezzo tramortita dal colpo dell’uscio. La siora Bettina si alzò, beata della sua liberazione. Il cappellano, non interamente sicuro che l’alzata d’ingegno fosse riuscita bene, se ne stava meditabondo, quando entrò in fretta e in furia la serva dell’arciprete, che disse al suo padrone:
«Ghe sarìa la Fedele.»
Il nome insolito della Vayla era spesso scambiato, in paese, per un cognome.
L’arciprete domandò, attonito:
«Quala Fedele?»
«Eh, nol sa? Quela de Arsiero. Quela dei cavigi bianchi.»
La siora Bettina sgattaiolò via in fretta; l’arciprete