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100 CAPITOLO TERZO

desiderio dello zio, non alla carriera prelatizia ma bensì alla cura d’anime, lontano dai suoi parenti, dalle sue aderenze aristocratiche, in una diocesi dove il suo nome fosse affatto sconosciuto. L’arciprete lo aveva saputo dal Vescovo di Vicenza. Don Emanuele non gliene aveva detto niente, non parlava mai, nè di sè, nè della sua famiglia, nè dei suoi piani di avvenire. Non parlava volontieri neppure del Cardinale. L’arciprete, che sulle prime si era ingegnato di spillargli tante cose di questo Cardinale, finì con persuadersi che il nipote non avesse per lo zio tanta simpatia quanta riverenza; e non gli parlò più dell’Eminentissimo che a Natale, a Capodanno, a Pasqua e la vigilia di San Giovanni, giorno onomastico di Sua Eminenza, per dirgli: «Ohe, don Emanuele, scrivendo a Roma, semo intesi, se credì, umilmente». O anche solo: «Ohe, scrivendo...» E allora compieva la frase con un riverente piegar del capo e del busto e un ossequente spiegar delle mani.


II.



«Madre Santa, cosa dice mai!» esclamò la siora Bettina, molto arrossendo e guardando il cappellano all’uscita dell’arciprete sulle nobiltà di Udine. Quel montone insolente del gregge di don Tita aveva torto di appiccicare alla siora Bettina il nomignolo di Spirita Santa. Ella non intendeva ispirare nè il cognato nè don Emanuele, non attendeva che alla santificazione sua propria. Rimasta vedova a cinquantadue anni del dottor Fantuzzo, senza figliuoli, provveduta sufficientemente, aveva accettato di occupare nell’ampia canonica di Velo d’Astico, dalla fine di aprile al principio di novembre, un alloggio del quale pagava l’affitto a don Tita. Faceva cucina a parte, non prendeva con don Tita che