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stesso, che la nascita e le aderenze lo predisponessero provvidenzialmente a salire in dignità e in potenza per il servizio della Chiesa, che questo sentimento superiore gli santificasse i desiderii ambiziosi, dei quali sul principio aveva intesa in sè qualche voce, e provato quindi qualche scrupolo. Un po’ alla volta essi gli si erano talmente avviluppati dentro il mantello del desiderio santo, da nascondersi del tutto alla sua coscienza. Il mantello era molto ampio e pesante. Lo zelo religioso di don Emanuele non era meno sincero dello zelo religioso di don Aurelio, le sue convinzioni religiose non erano meno profonde, la sua vita e il suo pensiero non erano meno puri, meno immuni da qualsiasi macchia di concessioni a concupiscenze. Era invece diverso il suo concetto di Dio e, sopra tutto, era diverso il suo concetto della Chiesa. La paternità di Dio era per lui piuttosto una formola creduta che una verità sentita e cara. Le sue labbra lo chiamavano Padre mentre il suo cuore lo sentiva monarca. Il nonno di don Emanuele era stato un imperioso, formidabile monarca della nobile famiglia, che governava imponendole il suo austero ascetismo e un timore di Dio non riuscito ben distinto, nei figli e nei nipoti, dal timore di lui. Invece il padre, assai poco intelligente, era mite e debole. Nella testa di don Emanuele l’idea di Dio aveva preso forma dall’impero e dalla pietà del nonno. Il suo Dio era una specie di Nonno infinito, santo e terribile. E la Chiesa per lui, era la sola Gerarchia, era un po’ la casa del nonno, dove preti e frati venivano sempre accolti come esseri celesti, superiori all’umanità.
Come veramente don Emanuele fosse capitato da Udine a fare il cappellano in Velo d’Astico, il solo arciprete, in Velo d’Astico, lo sapeva. Era stato volere del Cardinale che suo nipote, prima ancora di venire ordinato sacerdote, conoscesse di doversi dedicare, per