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98 CAPITOLO TERZO

prete andava raschiato forte prima di trovarvi la roccia elementare, mentre invece il cappellano era un levigato monolito. Tuttochè conoscesse assai bene il diabolico tedesco, don Emanuele non arrivava l’arciprete d’ingegno. Figlio di una gentildonna austriaca, aveva imparato il francese e l’inglese dalle bonnese dalle istitutrici delle sue sorelle. Si diceva che negli studi teologici avesse zoppicato alquanto, pur essendo uno sgobbone. Però i lunghi soggiorni fatti a Roma presso lo zio Cardinale, uomo d’ingegno, molto socievole, ricco di amicizie, gli erano giovati come a certi biscotti insipidi un lungo bagno nel bordeaux. Questo gran zio, il Nume della famiglia, era stato un sole per l’asteroide nipote, ne aveva attratto il corso al proprio cielo, senza volerlo, senza saperlo, fin da quando l’asteroide studiava grammatica. Vero che questi mostrava nel carattere, e anche nel viso, singolari predisposizioni all’alta prelatura. A dieci anni era già un omino educato ai modi della migliore società, alieno da ogni giuoco e dalle amicizie, ordinato, rispettoso, assennatino nel raro discorrere, misurato nella espressione degli affetti ai parenti secondo il grado della parentela, devoto, chiuso. Sua madre, la sorella del Cardinale, molto pia, era insieme contenta e malcontenta di questo figliuolo. Le era dolcezza di conoscerlo sinceramente religioso e inquietudine di non conoscerne che questo. Il Cardinale non era mai stato così, aveva un carattere aperto. Il piccolo Emanuele, fra i sei e gli otto anni, a chi gli domandava cosa avrebbe fatto da uomo, soleva rispondere: «il Vescovo»; fra gli otto e i dodici «il sacerdote»; fra i dodici e i quattordici «non so, non so», ostinatamente, cogli occhi a terra. Allora la risposta sincera sarebbe stata «il Cardinale». Non era tuttavia nè un ipocrita nè un conscio ambizioso. Chiamato a servire la Chiesa si sentiva veramente; e si era persuaso, ragionando con sè