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96 CAPITOLO TERZO

tempo, alla cura d’anime, lontano dai suoi, in un’altra diocesi. Nella persona interiore don Tita e don Emanuele erano pure dissimili, ma non quanto nell’esterna. Don Tita era più complicato. Lo spirito di don Tita si sarebbe potuto paragonare alla sua faccia ilare, dove i muscoli pieghevoli e l’adipe molle celavano l’intima durezza del teschio; oppure, meno lugubremente, a un campo verde e fiorito dove, a un palmo sotterra, trovi la roccia; oppure a certe piccole morbide pesche di montagna, dove, se metti il dente, incontri subito un nocciuolo invincibile. Tutto molle e tepido, alla superficie, di bonarietà, di condiscendenze verbali, di facili piacevolezze, egli aveva un nocciuolo freddo e duro di coscienza religiosa irrigidita nella forma impressale da maestri antiquati, dominata dai doveri di carattere intellettuale, dallo zelo per la tradizione, per la lettera della Legge, per l’autorità della Gerarchia. Era una coscienza convinta, fusa colla volontà di compiere il dovere religioso dappertutto e sempre, a qualunque patto. Ma il religioso dovere di carità verso il prossimo non coincideva in lui cogl’impulsi del sentimento, gli era impero di un’austera legge esterna piuttosto che impero di una legge scritta nel suo cuore e sancita da Cristo. Larghissimo, in omaggio al Vangelo, di elemosine, non amava nè stimava i poveri. I peccati più gravi e scandalosi dei suoi parrocchiani, sopra tutto le pubbliche mancanze di rispetto alle vesti sacerdotali, più che non lo affliggessero, lo irritavano, gli facevano pruder le mani, ch’eran pesanti, e non affatto inesperte di arte oratoria. Quanto ai costumi, era di una purezza scrupolosa, quasi ombrosa. Uomo di molte preghiere, disprezzava la religiosità mistica, che gli pareva sentimentalismo umano. Nei Santi e nei libri dei Santi, no; ma i Santi erano per lui esseri speciali, erano uomini nati coll’aureola per effetto della canonizzazione decretata