Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/107


TRAME 95

«Andè là, andè là! No sì dal Dolo, vu? No xelo pan del Dolo, quelo?»

«Povero il mio Dolo!» disse la siora Bettina, rivolgendosi in italiano a don Emanuele con un sorriso. «Cosa Le pare? Il signor arciprete non me lo perdona!»

«Il signor arciprete non perdona neppure Udine a me» rispose il cappellano, sorridendo anche lui.

«Grazie tante!» esclamò don Tita. «Udine! Fontane senz’acqua e nobiltà senza creanza!»

Don Emanuele era udinese e nobile; ma don Tita scherzava. Il viso, la persona, i modi, il linguaggio, tutto diceva, nel giovine cappellano, la nobiltà del sangue e la squisitezza dell’educazione. Egli era, quanto all’esteriore, il contrapposto di don Tita. Don Tita, aitante della persona, rubicondo, ilare la faccia, grossa come le sue facezie, lucente gli occhi, malgrado una pietà sincera, di astuzia terrestre più che di desiderii celestiali, era trascurato assai nel vestire, sprezzatore, quanto a pulizia, degli scrupoli, bonario e semplice di modi, talvolta rude. Nel giovine don Emanuele, alto e smilzo, si vedeva il virgulto prelatizio. La faccia era di asceta: fronte alta sotto un sottile arco perfetto di capelli biondastri; gote magre; occhiaie molto cave, ombrate di folti sopraccigli; occhi cerulei chiari, dalle pupille misteriose, annacquati, nelle iridi, di mansuetudine, aperti alla luce e chiusi sull’anima come finestre dipinte. Nel portamento, nel gesto, era una precoce dignità, un senso precoce della misura. E così nel linguaggio tutto era studio e cautela. Parlava sommesso, con voce fredda, un po’ nasale. Aveva l’erre aristocratico. Si diceva che da giovinetto si fosse proposto di entrare in un Ordine religioso e che il suo vescovo ne lo avesse distolto, non si sapeva perchè. Dicevano pure che la famiglia lo desiderasse a Roma, in Curia, e che fosse stata sua ferma volontà di dedicarsi prima, almeno per qualche