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94 | CAPITOLO TERZO |
piuttosto di rispetto che di stima per l’umorismo dell’autorità.
«Cape!» mormorò la siora Bettina. Questa sua familiare apostrofe a popolari crostacei marini significava una dolce difesa, la debita riverenza che le aveva impedito di camminare a fianco del cappellano. Il cappellano non fiatò. Alla porta della canonica egli si fece da banda a destra, la siora Bettina si fece da banda a sinistra, e l’arciprete, affrettata l’andatura, «son qua, son qua», passò trionfalmente, con grandi sventolate di tonaca. Nessuno dei tre udì, per fortuna, due liberi parlatori dire fra loro venendo dal Municipio verso la strada di Seghe:
«Quelo, ciò, xe un terno!»
«Ciò, el Padre, el Figlio e la Spirita Santa.»
Il terno si raccolse nel salottino da pranzo della canonica, dov’era preparato il caffè per l’arciprete e per la siora Bettina che si accostava ogni giorno alla Comunione. Don Emanuele aveva celebrato alle cinque; chiese licenza di ritirarsi a studiare. L’arciprete lo trattenne:
«No studiè tanto, ca diventarè mato» diss’egli.
L’altro, buon simulatore, finse di rimanere per pura compiacenza, mentre rimaneva per segreti accordi col superiore; e si mise a parlare di certo malato grave, visitato da lui quella mattina stessa. Intanto l’arciprete prendeva il caffè e latte in una miserabile scodella slabbrata, intingendovi poveri avanzi di pane del giorno prima; e la siora Bettina lo prendeva in una scodella simile ma con i celebrati «pandoli» di Schio.
«Me vergogno, don Tita, de sti pandoli» diss’ella, nell’accostarne uno alle labbra.
«Vergognève pure» rispose l’ottimo don Tita, ridendo. «El xe un bon sentimento,» e perchè ella esitava, rossa e silenziosa, a mordere la punta del «pandolo», riprese, ridendo tuttavia: